Cookie Consent by Free Privacy Policy website L’opera elegiaca di SALVO al Museo d'Arte Contemporanea di Lissone
dicembre 01, 2015 - Mac Lissone

L’opera elegiaca di SALVO al Museo d'Arte Contemporanea di Lissone

Una volta #salvo ha detto che «ciò che sta tra un imbiancare un muro e fare la Gioconda si può chiamare pittura». Se a lungo andare le pareti rischiano di scrostarsi, i quadri di #salvo non sono fatti di banale calce e tempera muraria, al contrario: sono come pietra dura, imperturbabile, solida e solenne. Non è un caso che nel trattato Della pittura – Imitazione di Wittgenstein, scritto dall’artista nel 1989, ricorra più e più volte il riferimento alla durezza delle pietre, che il pubblico aveva imparato a riconoscere nelle lastre di marmo da lui realizzate nei primi anni Settanta. La “letteratura epigrafica” incisa in quelle opere preannunciava una pacifica messa a morte dell’arte concettuale, quasi fossero delle pietre miliari che scandivano il ritorno alla pittura.
Tra critica e celebrazione, l’opera elegiaca di #salvo sentenziava con rara intelligenza sulla catatonia della fine del secolo, intuendo che l’iconoclastia sarebbe stata destinata al koimeterion, “luogo in cui si dorme”. Le sue lastre marmoree pos-sedevano inoltre il caustico orgoglio dell’[auto]ironia: Io sono il migliore, Amare me, #salvo è vivo/Salvo è morto, Respirare il padre, Più tempo in meno spazio, frasi che si opponevano all’apo-stasia degli anni Settanta, precorrendo viceversa il recupero dei pennelli e delle tele per ristabilire un rendez-vous con il passato, troppo a lungo negato (i suoi Autoritratti benedicenti, datati agli stessi anni, sono una prefigurazione di quest’in-tenzione di “trarre l’arte in Salvo”, per rispetto e riconoscenza nei confronti della tradizione).
Pur escludendo l’immagine, le lapidi di #salvo erano in grado di evocarla, impo-nendo una posterità che sarà appannaggio esclusivo della figurazione; la parola veniva gradualmente meno (perdendo la sua preminenza), ma non per questo il contenuto scompariva o era meno loquace, raggiungeva semmai l’agognata sintesi tra concetto ed esecuzione. «La frontiera di questa sinteticità – affermava l’artista – è che la rappresentazione resti leggibile». Rinunciando alla verbalizzazione, l’idioma di #salvo si era convertito in pittura, senza più la necessità di doversi raccontare; la lingua smetteva infatti di articolare le parole e iniziava ad assaporare l’impasto della pittura, soddisfacendo la categoria dell’estetica che noi solita-mente chiamiamo “gusto”.
Lasciandosi alle spalle l’ambage concettuale, #salvo è stato tra gli artisti che per primi hanno ripreso a frequentare i musei per poter dialogare con il passato. È su queste premesse che il MAC di #lissone rende omaggio a un artista che ha sempre saputo infondere grazia e ingegno nel suo lavoro. Come i sassolini di Pollicino che lo riconducevano a casa, le Lapidi di #salvo ci permettono di risalire a ritroso nel tempo, nella storia e nell’arte, ritrovando le radici stesse dell’artista: i minareti, le moschee, le chiese e le cattedrali da lui dipinte nel corso degli anni sono infatti una logica prosecuzione delle lapidi qui esposte. Sono cioè luoghi della preghiera, della memoria e del silenzio su cui siamo invitati a vegliare da quando l’artista ci ha lasciati prematuramente.

Salvo. Leonforte, 1947 – Torino, 2015

SALVO: IL MIGLIORE

OMAGGIO A CURA DI ALBERTO ZANCHETTA

Museo d’Arte Contemporanea
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