Cookie Consent by Free Privacy Policy website racconti da lontano #90
gennaio 24, 2022 - telescope

racconti da lontano #90

Francesco Vezzoli a Firenze: la libertà e il potere delle immagini, di Sergio Risaliti*

 

Se il Marzocco**, come vuole la tradizione, protegge tra le zampe il Giglio, simbolo della libertà fiorentina, il Leone di Vezzoli, stritola tra le fauci aperte una testa in marmo d'epoca romana, un frammento di civiltà perduta e una figura togata acefala. La belva sembra aver staccato la testa del togato romano dal resto del corpo – qui per estensione quello dell'arte classica – che è scivolato a terra, sul piano del basamento. Dell'intero non resta che una parte, un frammento, come quelle statue distrutte dalla furia degli uomini o dal tempo. La bella testa marmorea di epoca romana, di spirito antiquariato – come quelle che tanto amavano collezionare i principi e i porporati nelle case e nei palazzi da Roma a Firenze, da Mantova a Milano in epoca rinascimentale – contrasta con la fattura un po' prosaica e rozza del leone, che s'impenna con fare minaccioso nel centro della piazza. Quell'essere fiero qui si rivolta contro la civiltà passata, la storia delle immagini e dei monumenti classici, e superbamente ruggisce a dimostrare la sua potenza, una sovranità tanto fiera quanto irrazionale. Vezzoli negli ultimi anni si è cimentato con la scultura, giustapponendo parole antiche e moderne, accoppiando reperti classici di figure togate frammentate, e sovente acefale, a lemmi moderni, come le teste manichino rubate a De Chirico, restituendoci a questo modo nuove muse inquietanti.

Nell'operazione odierna, Vezzoli riserva, a sé stesso e all'artista contemporaneo, il compito di ricomporre i frammenti ed esergo di una civiltà in disgrazia, di un'unità perduta. E a questo modo si permette di ricordarci che l'arte è sempre cosa mentale, e che il ready made è ormai cosa superata, e che di questi sublimi assemblage, tra antico e moderno, si hanno testimonianze importanti nei tempi antichi. Si veda ad esempio il Ganimede di Benevenuto Cellini, realizzato assemblando parti di un'antica scultura a elementi moderni, realizzati dallo stesso Cellini. Ma Vezzoli riesce a fare un passo ulteriore rispetto a quella tradizione rinascimentale. Un passo ancora più sofisticato e provocatorio, in senso creativo e poetico. Piuttosto sulla scia di De Chirico e Savino, inventori di metamorfosi e collage misteriosi ed evocativi, che su quella dei restauratori rinascimentali. Perché nel suo caso il fine non è l'integrazione per una ristabilita leggibilità della frase figurativa originaria, rispondendo alle esigenze di armonia formale e concettuale risultante dalla perfetta ricostruzione dell'intero a partire dal frammento, come nel caso citato del Ganimede. Vezzoli combina i lemmi figurativi in modo da ottenere un ibrido che spiazza e sconcerta, appunto un collage linguistico che vive in un mondo diverso da quello della tradizione pur rigenerandone le forme. Un mondo surreale e metafisico ad un tempo, che nasce dalla giustapposizione di archeologia e fantasia, di memoria e invenzione, che sottende in questa occasione e in questo luogo una volontà di critica all'attacco che la #cultura artistica occidentale, e classica in particolare, sta subendo da parte di movimenti ideologici al limite del fanatismo. L'opera, il Leone, questa volta difende da una minaccia culturale, da una minacciosa e aggressiva onda ideologica che sta mettendo a soqquadro la storia delle immagini e dei contesti originali.  Perché la libertà si fonda e trasmette anche sul potere misterioso, poetico e trascendentale delle immagini.

 

*Direttore del Museo del Novecento di Firenze

**Il leone a Firenze è da sempre il Marzocco​, assurto dai tempi della repubblica fiorentina (1115) ad elemento totemico in difesa della libertà comunale

 

Sulle orme di San Giacomo: da Santiago a Pistoia, di Marta Santacatterina

 Narra la leggenda che nel IX secolo l'anacoreta Pelagio vide una pioggia di stelle cadere sopra un colle della Galizia, poi sognò l'apostolo Giacomo che gli rivelava la presenza delle sue spoglie nel luogo del prodigio luminoso. Il vescovo locale si recò sul posto e scoprì il sepolcro dell'evangelizzatore della Spagna, diventato da allora meta di pellegrinaggio, tanto che attorno al 1075 vi si costruì attorno una grandiosa basilica, la stessa in cui confluiscono ancora oggi i pellegrini che percorrono il cammino di Santiago di Compostella (da "San Giacomo" più "campo della stella").

E da Santiago, nel 1140, per volere del vescovo Atto giunse a Pistoia una preziosa reliquia dell'apostolo, inserendo la città nel vasto reticolo europeo delle vie di pellegrinaggio. Il sacro frammento fu foriero di un fermento sia economico – potremmo paragonare i viandanti medievali agli odierni turisti – sia culturale, visto che per onorare la reliquia e abbellire le chiese si convocarono i migliori artisti vicini e lontani. Nel 1287 si cominciò inoltre a realizzare un sontuoso altare argenteo, terminato nel 1456, che rappresenta il punto di partenza della mostra Medioevo a Pistoia. Al complesso manufatto lavorarono artisti quali Andrea di Jacopo d'Ognabene (nelle sale dell'Antico Palazzo dei Vescovi, sede dell'esposizione, si incontra una sua croce astile e il calice "degli Umiliati"), mentre il tesoro della Cattedrale si arricchì di oggetti liturgici di Pace di Valentino (a lui è attribuito il preziosissimo calice di Sant'Atto e qualcuno sostiene che abbia lavorato anche all'altare) nonché di altri orafi che testimoniarono i passaggi di stili e di epoche. L'ingresso nel secolo del Rinascimento vide peraltro la presenza a Pistoia di Filippo Brunelleschi – suoi i busti di due profeti per l'altare –, e di Lorenzo Ghiberti, autore del reliquiario di San Jacopo (esposto in mostra).

Medioevo a Pistoia mette tuttavia a concerto tutte le arti, dalla pittura alla scultura e alla miniatura, e i capolavori di oreficeria citati sono solo un esempio per comprendere il senso profondo dell'esposizione: ricostruire idealmente lo strettissimo legame tra le splendide opere e i contesti per i quali vennero realizzate, nonché tra la città e gli artisti che vi lavorarono.

 


Memoria che vai, memoria che vieni, memoria che resti, di Amedeo Spagnoletto*

 

Trasmettere la memoria della Shoah in modo incisivo e costruttivo è una sfida che non dà tregua. Una tragedia composta da un quadro articolato fatto di delegittimazione, di violenza personale e brutalità contro un popolo. Di uno sfondo storico di un odio che affonda le radici in profondità, ma anche della distruzione di un retaggio culturale millenario perduto per sempre. Su quale tessera focalizzare l'attenzione rispetto a questo tragico mosaico di avvenimenti che si è consumato nel nostro continente? Quella cara Europa per cui facciamo di tutto perché sia un luogo senza confini né barriere, uno spazio in cui ovunque i nostri giovani devono sentirsi cittadini. Quali strumenti educativi adottare per essere efficaci? Ci troviamo di fronte a un quadro articolato, con questioni ancora irrisolte e che impone scelte complesse e che segue tre direttrici, tre impulsi, tre approcci diversi alla Memoria. La memoria che costringe a muoversi. Quei posti dove i giovani vengono "portati" per capire, per impressionarsi, per riflettere. Musei della memoria, viaggi della memoria, memoriali. Non c'è dubbio; l'impatto è travolgente, a tratti l'angoscia travalica il confine di quanto un individuo possa sopportare. Ho partecipato a numerosi viaggi della memoria. Sono stato testimone a volte di straordinaria compostezza, altre, con senso di profondo fastidio, mi è capitato di notare che, nonostante tutto, lo spirito della "gita" aveva prevalso. Poi c'è la memoria che viene da te. Quella che l'insegnante porta in classe. Fatta di film, di libri, persino di documenti estratti dagli archivi, quando si ha la fortuna di incontrare professori sensibili e appassionati. C'è da chiedersi se oltre che competenze, questi strumenti trasmettano esperienze che incidono in profondità nei cuori. La terza via è la memoria per impatto. Non viene lei da te e non chiede che tu ti sposti per andare a cercarla. Fa in modo che la tua vita quotidiana si mescoli con lei. È minimale ma profondamente incisiva; l'espressione più originale sono le Stolpersteine, le Pietre d'Inciampo. Questi sampietrini dorati in superficie riportano in poche essenziali righe i dati di una persona assassinata insieme ad altre milioni di vittime innocenti. Se ne stanno lì, discrete di fronte all'uscio del palazzo dove abitavano coloro che furono deportati. Lo scopo è quello di restituire un nome a chi ha subito il sopruso della sua negazione; sono poste proprio lì dove quell'identità si esercitava fino al brutale sradicamento. La pietra non è invadente, ma dopo averla vista, non riesci a disfarti del suo ricordo. È nel mezzo di quel tragitto che compi ogni giorno per recarti a scuola, non puoi non confrontarti con essa. Potrai decidere di aggirarla o fermarti un momento a leggerla, calpestarla se vuoi, ma non ignorarla. E se in quel palazzo vive il tuo compagno con cui giochi o studi, ogni volta che andrai da lui sentirai cigolare il portone, proprio come cigolò quel giorno in cui gli aguzzini si preparavano a compiere il crudele lavoro.  Le 100 mila pietre che sono state posizionate finora in tutto il vecchio continente uniscono luoghi lontani e con loro i nostri cuori, ma soprattutto contribuiscono a fare in modo che i giovani non dimentichino e si sentano autentici cittadini d'Europa.