Cookie Consent by Free Privacy Policy website Opening Wish You Were Here – venerdì 25 marzo 2022 - Bergamo, Casa del Commiato
marzo 25, 2022 - Casa del Commiato

Opening Wish You Were Here – venerdì 25 marzo 2022 - Bergamo, Casa del Commiato

Wish You Were Here / assenza.desiderio.nostalgia

L’arte si pone sempre in una prospettiva spirituale. Creare oggetti, azioni, situazioni che riescano a travalicare i limiti temporali concessi dall’esistenza di ciascuno corrisponde all’aspirazione a raggiungere un infinito e una temporalità capaci di andare oltre la finitezza della vita. Ogni opera, proprio come un sasso lanciato oltre noi stessi, mira a lasciare un messaggio verso l’assoluto del tempo, nella convinzione o nell’illusione che ci possa essere una sua continuità successiva alla nostra e alle prossime generazioni. In questa prospettiva, nell’ottica di pratiche che tentano di smuovere un invisibile attraverso un visibile, l’arte trova spesso il suo motivo di creazione nella sostituzione di qualcosa non più presente. A partire dalla leggenda narrata da Plinio il Vecchio che racconta della nascita della #pittura – una giovane che traccia sul muro il profilo dell’amato in procinto di partire – la produzione visuale si trova da sempre ad avere a che fare con l’idea di tensione e mancanza, nell’auspicio, incompleto e irraggiungibile, di trovare un sostituto a un ente reale che non è più visibile oppure di dare corpo a qualcosa che un attimo prima non esisteva affatto. Assenza, desiderio e nostalgia sono dunque motori della produzione artistica, stati manchevoli che attraverso lo “spreco” della creatività riescono felicemente a colmare un vuoto, ricoprire una distanza, arrivare a sfiorare l’agognato obiettivo senza mai poterlo conquistare e fermare totalmente. L’apparente natura negativa di tali condizioni in difetto si trasmuta così in forza dall’apporto positivo con lavori, che come rattoppi sunvesti sgualcite, prendono il posto di un nulla pieno di potenzialità.

Wish You Were Here, mostra collettiva che raduna più di venti personalità tra artisti singoli e gruppi, ragiona dunque in maniera libera e aperta su questi temi che portano l’opera a superare i confini fisici dell’esistenza, mettendosi nella prospettiva di una tensione, una mancanza, che può trovare solo momentanei scioglimenti. Tutto ciò avviene in una location atipica, trasformando con la nuova presenza artistica la Casa del Commiato bergamasca in corso di costruzione in uno spazio espositivo in grado di accogliere lavori visuali. Anche attraverso la potente connotazione del luogo, ancora cantiere ibrido aperto a diverse suggestioni, gli apporti artistici entrano in risonanza con i temi di infinito, al di là, melanconia, tensione e desiderio, facendo sì che persino un concetto doloroso come l’assenza possa diventare motore positivo di produzione creativa.

Difficile ordinare la variabilità delle possibilità messe in campo dai diversi artisti invitati. Alcuni, utilizzando oggetti e materie dalla forte carica evocativa, cercano di creare metafore-sostituti del corpo umano definite da un’intensa caratterizzazione simbolica. Come #giuliolocatelli, con i suoi taccuini portatori di memoria e ricordi, #camillamarinoni, in un’opera scaturita dai lutti della pandemia Covid-19 fatta di strappi e tensioni dell’assenza, o #guidonosari, con i suoi grandi centrini, volutamente intessuti fuori scala per diventare complessi autoritratti corporei della sua presenza. Se Locatelli e Marinoni usano la carta come rappresentazione della complessità umana, #marialuigiagioffre ripristina il portato comunicativo di questo materiale culturale, realizzando lunghi rotoli in cui dare voce a lettere d’amore inviate a nessuno, perfetta resa della tensione verso l’impossibile e l’invisibile di cui parla la mostra. Dimensione privata, intima e domestica che è anche quella a cui si appella #ariannagreci, creando ironici consigli di sopravvivenza domestica che ricordano l’eventuale “morte civile” delle misure di confinamento resesi necessarie dalla pandemia ancora in atto.

Il confronto con il medium tradizionale della #pittura consente diverse ambiguità allusive, come avviene con i personaggi di Elisa Filomena, distanti e sbiaditi, usciti da vecchie immagini d’epoca, o con gli equilibri tra informale e geometria di Thomas Scalco che grazie a una #pittura di ispirazione iconica cerca di operare ricognizioni da un mondo altro e sondare così i territori dell’invisibile. Nell’opera scultorea di Monica Mazzone è invece un apparentemente freddo idioma neo-concretista a fare la parte del leone, anche se la geometria riesce a essere in grado di “racchiudere apparati emotivi”, mettendo in relazione, con questo lavoro, il microcosmo dell’individuo con il macrocosmo dei moti lunari.

Tra evanescenza e presenza, anonimato e riconoscibilità, si situano anche le serie fotografiche di Alberto Ceresoli e Carmela Cosco, ritratti rubati dalle pagine commemorative di facebook dedicate a utenti scomparsi, che, come nelle sfocature di Boltanski, possono aprirsi alle più diverse interpretazioni. L’elemento luttuoso e, per così dire, monumentale (nel senso della memoria) dell’arte viene messo in campo da Lidia Bianchi in una serie fotografica in cui il ricordo del padre si mescola al pensiero di Pierpaolo Pasolini sulle lucciole, segno della perdita di una natura, un’ingenuità e uno stupore originari. Letizia Scarpello, con un lavoro molto personale costituito da sculture cilindriche, unisce la dimensione trascendente e commemorativa dell’oro con “anime” di gommapiuma che parlano di una condizione contemporanea povera e artificiale allo stesso tempo. Anche Linda Carrara cerca di stimolare ambiguità e inciampi percettivi ma lo fa attraverso le materie pittoriche, andando a evocare un viaggio iniziatico di trasformazione, in cui la presenza di finti-marmi dipinti – come nelle decorazioni quattrocentesche – simula con mezzi poveri il materiale del ricordo per antonomasia.

Ma, come si diceva, l’aspetto mancante della perdita può dare luogo anche a spinte “desideranti” che, nel caso di Martina Cioffi e Lorenzo D’Alba, portano a forme ibride tra il naturale, il minerale, il vegetale e l’animale, con riferimenti antropomorfi al tempo stesso suadenti e destabilizzanti. In Luca Petti, invece, il collegamento al mondo naturale ha una finalità concettuale nel mostrare l’esoscheletro del limulo, un cosiddetto “fossile vivente”, la cui evoluzione, ferma da centinaia di milioni di anni, lo fa apparire uno strano essere contemporaneamente vivo e morto. Noemi Mirata e Miriam Montani approcciano invece il mondo ambientale nelle sue possibilità dinamiche e trasformative, focalizzando l’attenzione sui materiali e i loro processi; la prima orchestrando sudari vegetali in cui l’aspetto catacombale è negato dalla speranza della rinascita, letteralmente emergente dalle maglie dei tessuti; la seconda utilizzando piccole piante, galleggianti sul pelo dell’acqua, che ricostruiscono il profilo anatomico di un volto umano, in un’inedita simbiosi. Il medium del video consente, invece, diverse temporalità e possibilità narrative. Elisabetta Di Sopra, riprendendo l’iconografia della Madonna col Bambino e attualizzandola, esegue una disamina sulle proprietà del toccare e del contatto fisico, dell’amore e della cura per i propri cari, ricordando le parole di Marc Augé: “Toccare un altro significa nello stesso tempo provare la propria esistenza. Attraverso il tatto noi affermiamo pertanto la nostra esistenza irrimediabilmente singolare e plurale”. Giacomo Infantino in un video a inquadratura fissa mostra una cascata che lentamente scompare nel buio della notte, energia ed esaurimento risultano così uniti in un simbolo iconico; Alice Mestrinier e Ahad Moslemi affrontano invece di petto il tema della mostra in un mediometraggio dove una voce impersonale racconta dei tentativi scientifici per “risolvere il problema tecnico della fine” e donarci l’immortalità, mentre immagini di microorganismi ripresi al microscopio donano un terribile senso di precarietà e finitezza. Infine, figure di infanzia che hanno paradossalmente l’aspetto di mummie o calchi pompeiani, sono la riflessione ossessiva e materica di Paolo Migliazza, in grado forse di dare un chiosa definitiva al nostro rapporto con il mistero della fine, tra ricordi di una perfezione legata ai primi anni di vita e timore per ciò che verrà.

In tutti questi diversificati interventi, l’apporto caleidoscopico ed eccedente delle possibilità linguistiche contemporanee non deve distrarre dal nocciolo attorno al quale ogni lavoro è nato ed è stato selezionato. Come in una triade dialettica, fatta da tesi, antitesi e sintesi, l’assenza pone un vuoto e con esso una problematica, la necessità di un termine di riempimento. Così interviene l’aspetto positivo, desiderante appunto, che innesta una tensione, uno spostamento di energia creativa nel tentativo di colmare, ridare forma e corpo a quello spazio aperto alle eventualità. Infine si inserisce un elemento nostalgico, come risoluzione tra i due stati contrapposti, la melanconia caratteristica dei “nati sotto Saturno”, dove il nuovo equilibrio raggiunto non nasconde neppure la mancanza per ciò che si è perso. Questa mostra non parla poi tanto di morte ma dell’esperienza propria di ogni fare, in cui non esiste annullamento ma solo trasformazione.

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